LETTERA PRELIMINARE *
* Questa lettera e il manoscritto che l’accompagna — il manoscritto in busta a parte, suggellata — furono affidati al maresciallo d’alloggio Châtelain, del 3° spahi, dal tenente Ferrières, il 10 novembre 1903, giorno della partenza del suddetto ufficiale per il Tassili dei Tuareg Azdjer (Sahara centrale). Il maresciallo aveva l’ordine di consegnare l’una e l’altro, la prima volta che venisse in licenza in Francia, a Monsieur Leroux, consigliere onorario della Corte d’appello di Riom, che era il parente più prossimo del tenente Ferrières. Poiché il magistrato è deceduto improvvisamente, prima che scadesse il termine di dieci anni fissato per la pubblicazione del presente manoscritto, ne sono risultate le difficoltà che hanno ritardato fino a oggi la presente edizione.
Hassi-Inifel, 8 novembre 1903.
Se le pagine che seguono vedranno un giorno la luce del sole, vuol dire che essa mi sarà stata tolta. Il termine che fisso alla loro divulgazione rappresenta per me una garanzia abbastanza sicura.
Che non ci si inganni sul mio scopo ultimo per quanto riguarda questa divulgazione, poiché la preparo e la richiedo. Mi si può credere se affermo che non ripongo nessun amor proprio di autore in questo testo febbrile. Fin da oggi sono così lontano da tutto ciò! Sinceramente, mi sembra però inutile che altri si avventurino sulla via dalla quale io non sarò più ritornato.
Le quattro del mattino. Presto l’aurora stenderà sulla hamada il suo incendio rosato. Intorno a me, il bordj sonnecchia. Dalla porta socchiusa della sua camera, sento il respiro tranquillo, così tranquillo, di André de Saint-Avit.
Tra due giorni, lui ed io, partiremo. Lasciamo il bordj. Ci inoltriamo laggiù, verso sud. L’ordine del ministero è giunto ieri mattina.
Ora, anche se lo volessi, sarebbe troppo tardi per tirarmi indietro. André e io abbiamo sollecitato questa missione. L’autorizzazione che ho richiesta, di comune accordo con lui, si è trasformata ora in ordine. Percorrere la via gerarchica, mettere in moto persone influenti al ministero, aver fatto tutto questo per poi aver paura, torcere il naso di fronte all’impresa!...
Aver paura, ho detto. Io so che non ho paura. Una notte, nel Gourara, quando ho trovato due delle mie sentinelle massacrate, con l’infame incisione a forma di croce dei Berberi sul ventre, ho avuto paura. So dunque che cos’è la paura. Anche adesso, mentre contemplo l’immensa coltre di tenebra da cui tra poco sorgerà improvvisamente la sfera gigantesca e rossa del sole, so che non è la paura che mi fa trasalire. Sento che in me lottano il sacro orrore del mistero e il suo fascino.
Esaltazioni, forse. Immaginazioni di un cervello esasperato e di un occhio sconvolto dai miraggi. Certamente verrà il giorno in cui rileggerò queste pagine con un sorriso pietoso e imbarazzato, il sorriso di un uomo di cinquant’anni che rilegge vecchie lettere.
Esaltazioni. Immaginazioni. Ma queste esaltazioni, queste immaginazioni mi sono care. Il capitano de Saint-Avit e il tenente Ferrières, dice il dispaccio ministeriale, si occuperanno di scoprire, nel Tassili, le relazioni stratigrafiche dei grès albici e dei calcari carboniferi... Ne approfitteranno per informarsi, eventualmente, sui mutati atteggiamenti degli Azdjer nei confronti della nostra influenza, ecc. Se questo viaggio dovesse, alla fine, ridursi a così povere conclusioni, sento che non partirei...
Auspico dunque quello che temo. Resterò deluso se non mi troverò di fronte a quello che mi fa fremere in modo così insolito.
In fondo alla vallata dell’uadi Mia, uno sciacallo abbaia. A intervalli, quando un raggio di luna, squarciando con riflessi argentei le nubi rigonfie di calore, fa credere al sole nascente; una tortorella tuba tra i palmizi.
Un passo, all’esterno. Mi affaccio alla finestra. Un’ombra vestita di stoffe nere e rilucenti scivola sul selciato della piattaforma del fortino. Un bagliore nella notte carica di elettricità. L’uomo ha appena acceso una sigaretta. Si è accoccolato, rivolto a mezzogiorno. Fuma.
È Cegheïr-ben-Cheïkh, la nostra guida tuareg, colui che fra tre giorni ci condurrà verso gli altipiani sconosciuti del misterioso Imoschaoch, attraverso le hamade di pietre nere, i grandi uadi prosciugati, le saline d'argento, i fulvi gour, le dune d’oro smorto, da cui si alza, quando soffia l’aliseo, un tremulo pennacchio di sabbia livida.
Cegheïr-ben-Cheïkh! È proprio lui. Mi torna alla mente, la tragica frase di Duveyrier: Il colonnello mette il piede nella staffa e riceve contemporaneamente una sciabolata **... Cegheïr-ben-Cheïkh... È là. Fuma tranquillamente una sigaretta, una sigaretta del pacchetto che gli ho dato...Dio mio! perdonami questo atroce tradimento.
** H. Duveyrier, Désastre de la mission Flatters, Bulletin de la Société géographique 1881.
Il fotoforo1 proietta la sua luce sulla carta gialla. Strano destino quello che ha deciso, a mia insaputa e con motivazioni per me inconoscibili, di farmi entrare sedicenne a Saint-Cyr2, dove avrei avuto come compagno André de Saint-Avit.
1. Fotoforo: lampada munita di riflettore.
2. Saint-Cyr-l'EcoIe: (Yvelines, vicino a Versailles) scuola speciale militare, fondata 1808 nel preesistente collegio femminile, aperto sotto il patrocinio di Luigi XIV e di de Maintenon.
Avrei potuto studiare diritto, medicina. Sarei oggi un uomo completamente tranquillo, in una città, con una chiesa e dei corsi d’acqua; e non questo fantasma vestito di cotone, affacciato al davanzale, con ansia inesprimibile, sul deserto che sta per inghiottirlo.
Un grosso insetto è entrato dalla finestra. Ronza e rimbalza dalle pareti intonacate a calce sino al globo del fotoforo, e infine vinto, con le ali bruciate dalla fiamma ancora alta, si lascia cadere proprio là, sul foglio bianco.
È un calabrone d’Africa, enorme, nero, con macchie di un grigio biancastro.
Penso agli altri, a quelli che si trovano in Francia, ai calabroni bruni dai riflessi dorati che, nelle sere cariche dei temporali estivi vedevo schizzare come proiettili dal suolo della mia campagna natia. Bambino, ho trascorso laggiù le vacanze; più tardi, le licenze.
Durante l’ultima, in quella stessa distesa di prati, camminava vicino a me una sottile forma bianca, con una sciarpa di mussola, per ripararsi dall’aria serotina, così fresca da quelle parti. Ora è già tanto se, sfiorato da quel ricordo, lascio che il mio sguardo si levi per un secondo verso un angolo scuro della mia camera, dove sul muro nudo brilla il vetro di un ritratto indistinto. Capisco quanto valore ha perduto ciò che un tempo pareva dovesse costituire tutta la mia vita. Quel mistero dolente non ha ormai nessun interesse per me. Se i cantori ambulanti di Rolla3 venissero sotto questa finestra del bordj a sussurrare le loro celebri arie nostalgiche, so che non li ascolterei, e se si facessero troppo insistenti, li manderei via.
3. Rolla: allusione a una raccolta poetica, del 1833, dello scrittore francese Alfred de Musset (1810-1857). In questo libro, il poeta esprime il suo rincrescimento nel veder ormai scomparsa la semplice felicità dei secoli passati e la fede incrollabile, saldo appannaggio dei primi secoli del Cristianesimo.
Che cosa ha motivato questa metamorfosi? Una storia, un racconto forse, narrato in ogni modo, da una persona sulla quale pesa il più mostruoso dei sospetti.
Cegheïr-ben-Cheïkh ha finito la sigaretta. Lo sento riguadagnare a passi lenti la sua stuoia, nel casamento B, vicino al posto di guardia, a sinistra.
Dovendo partire il 10 novembre, il manoscritto unito a questa lettera è stato incominciato domenica 1 e terminato giovedì 5 novembre 1906.
UN PRESIDIO DEL SUD
Sabato 6 giugno 1903 ruppe la vita monotona che si conduceva nel presidio di Hassi-Inifel grazie a due avvenimenti di diversa portata: l’arrivo di una lettera di Mademoiselle Cécile de C... e quello dei numeri più recenti del Journal officiel della Repubblica Francese.
“Se il signor tenente permette” — disse il maresciallo d’alloggio Châtelain, mettendosi a scorrere i numeri del giornale, di cui aveva rotto le fascette.
Acconsentii con un cenno del capo, già completamente immerso nella lettura della missiva di Mademoiselle de C...
Quando riceverete questa mia, scriveva in sostanza l’amabile giovinetta, la mamma ed io avremo sicuramente già lasciato Parigi per la campagna. Se, nel vostro bled, l’idea che mi annoi quanto voi può consolarvi, rallegratevi.
Si è corso il Grand Prix. Ho puntato sul cavallo che mi avevate suggerito, e, naturalmente, ho perduto. L’altro ieri, abbiamo cenato dai Martial de La Touche. C’era Elias Chatrian, sempre straordinariamente giovane. Vi mando il suo ultimo libro, che suscita molto scalpore. Pare che i Martial de La Touche vi siano ritratti dal vivo. Aggiungo gli ultimi libri di Bourget, di Loti e di France, più le due o tre canzonette di moda in questo momento nei caffè-concerto. Per quanto concerne la politica, si dice che l’applicazione della legge sulle Congregazioni1 incontrerà serie difficoltà. Niente di realmente nuovo a teatro. Ho fatto un abbonamento estivo all’Illustration. Se vi dice qualche cosa...
1. II ministro Combes aveva fatto approvare (1903-1904) una serie di leggi per abolire le Congregazioni religiose, anche quelle autorizzate, e per impedire che esse esercitassero l’insegnamento.
In campagna, non si sa che cosa fare. Sempre lo stesso assortimento di idioti in attesa per il tennis. Non avrò merito a scrivervi spesso. Risparmiatemi i vostri commenti a proposito del giovane Combemale. Non sono assolutamente femminista, avendo abbastanza fiducia in coloro che mi dicono graziosa, e in voi specialmente. Ma a ogni buon conto, mi fa rabbia l’idea che se mi permettessi nei confronti di uno solo dei garzoni di fattoria il quarto delle libertà che vi pigliate con le vostre Ouled-Naïls... Lasciamo stare. Ci sono delle fantasticherie troppo sconvenienti.
Ero arrivato a quel punto nel leggere la prosa della giovinetta emancipata, quando un’esclamazione scandalizzata del maresciallo d’alloggio mi fece alzare il capo.
“Signor tenente!”
“Che cosa c’è?”
“Ebbene! ne fanno delle belle al ministero. Leggete dunque”.
Mi porse l’Officiel. Lessi:
Con decisione in data 1 maggio 1903, il capitano de Saint-Avit (André), in aspettativa, è assegnato al 3° spahi, e nominato al presidio di Hassi-Inifel.
Il cattivo umore di Châtelain diventava sempre più manifesto:
“Il capitano de Saint-Avit, comandante del presidio! Un presidio sul quale non c’è mai stato niente da dire! Ci prendono dunque per un immondezzaio?”
La mia sorpresa era pari a quella del sottufficiale. Contemporaneamente vidi la brutta faccia da faina di Gourrut, il joyeux2 che impiegavamo come scrivano; aveva smesso d’imbrattare i fogli e ascoltava con interesse appena dissimulato.
2. Joyeux (1855) soprannome dato ai soldati delle Compagnie di disciplina stanziate in Africa. Anche soldato di battaglione di fanteria leggera in Africa.
“Maresciallo, il capitano de Saint-Avit è stato promosso ufficiale con me” — dissi seccamente.
Châtelain salutò, uscì; io lo seguii.
“Su, vecchio mio, — gli dissi battendogli sulla spalla — non fate il broncio. Ricordatevi che tra un’ora partiamo per l’oasi. Preparate le munizioni. Bisogna assolutamente migliorare il vitto”.
Rientrato in ufficio, congedai con un gesto Gourrut. Rimasto solo, terminai rapidamente la lettera di Mademoiselle de C..., poi presi nuovamente l’Officiel e rilessi la decisione ministeriale che assegnava un nuovo comandante al presidio.
Erano cinque mesi che ne facevo le funzioni, e in fede mia me la cavavo piuttosto bene, anche perché gradivo molto l’indipendenza di cui godevo. Posso anche affermare, senza lusingarmi troppo che, sotto la mia direzione il servizio era stato espletato ben diversamente che sotto il capitano Dieulivol, il predecessore di Saint-Avit. Brav’uomo davvero, il capitano Dieulivol, coloniale della vecchia guardia, sottufficiale all’epoca di Dodds e di Duchesne, affetto da una temibile propensione per i liquori forti, e troppo incline, quando aveva bevuto, a confondere tutti i dialetti e a sottoporre un Haussa ad un interrogatorio in sakalave. Nessuno fu più parsimonioso di lui con le riserve d’acqua del presidio. Una mattina, mentre preparava il suo assenzio, in compagnia del maresciallo Châtelain, quest’ultimo, che teneva gli occhi fissi sul bicchiere del capitano, vide con stupore il verde liquore diventare bianco per una dose d’acqua più abbondante del solito. Alzò il capo, intuendo che qualche cosa di anormale era appena accaduto. Il capitano Dieulivol, rigido, con la caraffa inclinata nella mano, fissava l’acqua che gocciolava sullo zucchero. Era morto.
Per cinque mesi, dopo la scomparsa di quel simpatico ubriacone, era parso che in alto luogo non si curassero della sua sostituzione. Per un momento, avevo perfino sperato che si prendesse la decisione di assegnarmi di diritto le mansioni che già esercitavo di fatto... E ora, quella nomina improvvisa...
Il capitano de Saint-Avit... A Saint-Cyr eravamo coscritti. L’avevo perduto di vista. Poi la mia attenzione era stata richiamata su di lui dal rapido avanzamento, dalla decorazione, ricompensa meritata per tre viaggi di esplorazione particolarmente audaci, nel Tibesti e nell’Aire e a un tratto, il dramma misterioso del suo quarto viaggio, la famosa missione compiuta con il capitano Morhange, e dalla quale uno solo degli esploratori era tornato. In Francia, tutto si dimentica in fretta. Ed erano già passati ben sei anni da tali avvenimenti. Non avevo più sentito parlare di Saint-Avit. Credevo perfino che avesse lasciato l’esercito. Ed ecco che ora mi trovavo ad averlo come comandante.
‘Insomma – pensai – quello o un altro!... Alla Scuola Militare era simpatico, e siamo sempre stati in buoni rapporti. Del resto, non ho gli anni di servizio prescritti per diventare capitano’.
E uscii dall’ufficio fischiettando.
Eravamo in quel momento, Châtelain e io, con i fucili posati sul terreno già meno caldo, presso la pozza fangosa posta al centro della sparuta oasi, nascosti dietro una specie di graticcio di alfa. Il sole al tramonto tingeva con un riflesso rosato i piccoli canali stagnanti, dove vengono irrigate le magre colture dai negri non nomadi e dediti all’agricoltura .
Neanche una parola per tutto il cammino. Neanche una parola durante l’appostamento. Era evidente che Châtelain faceva il broncio.
Abbattemmo in silenzio, prima l’uno poi l’altro, alcune delle misere tortore che venivano, con le ali appesantite dal calore del giorno, a placare la sete nell’acqua verde e melmosa. Quando una mezza dozzina di piccoli corpi insanguinati furono allineati ai nostri piedi, misi la mano sulla spalla del sottufficiale.
“Châtelain!”
Egli trasalì.
“Châtelain, vi ho maltrattato poco fa. Non bisogna volermene”. Era l’ora ingrata prima della siesta. L’ora ingrata del mezzogiorno.
“Il signor tenente è padrone” — rispose con un tono che voleva essere burbero e che era soltanto commosso.
“Châtelain, non dovete volermene... Voi avete qualche cosa da dirmi. Sapete di che cosa intendo parlare”.
“Veramente non capisco. No, non capisco”.
“Châtelain, Châtelain, siamo seri. Parlatemi un po’ del capitano de Saint-Avit”.
“Non ne so nulla” — rispose con rudezza.
“Nulla? E quelle parole di poco fa?...”
“Il capitano de Saint-Avit è un coraggioso — mormorò, con la fronte ostinatamente abbassata. — Si è avventurato tutto solo fino a Bilma, nell’Aïr, tutto solo, in luoghi dove nessuno era mai stato. È un coraggioso”.
“È un coraggioso, certamente — dissi con tono di dolce pacatezza. — Tuttavia ha assassinato il suo compagno, il capitano Morhange, non è forse vero?”
Il vecchio maresciallo tremò.
“È un coraggioso” – si ostinò a ripetere.
“Châtelain, siete un bambino. Avete forse paura che riferisca le vostre parole al nuovo comandante?”
Avevo toccato il punto giusto. Sussultò.
“Il maresciallo Châtelain non ha paura di nessuno, signor tenente. Sono stato ad Abomey, contro le Amazzoni3, in un paese dove da ogni cespuglio, sbucava un braccio nero ad afferrarvi la gamba, mentre un altro, con un colpo di coltellaccio, ve la troncava violentemente”.
3. Amazzoni: tra i vari regni indigeni, sorti a partire dalla metà del Settecento e sopravvissuti per un secolo sino alla conquista bianca, ebbe particolare importanza quello del Abomey, famoso nell’iconografia pittoresca del tempo per la guardia reale del corpo, costituta da circa seicento donne-guerriere, immediatamente ribattezzate dagli Europei con il nome di Amazzoni.
“Allora, quello che si dice, quello che anche voi..”
“Allora, sono tutte chiacchiere”.
“Chiacchiere, Châtelain, che vengono ripetute in Francia e dappertutto”.
Abbassò ancor di più la fronte, senza rispondere.
“Razza di mulo – scattai — deciditi a parlare!”
“Signor tenente, signor tenente — disse con voce supplichevole – vi giuro che quello che so è ben poca cosa...”
“Quello che sai, me lo dovrai dire, e subito. Altrimenti, ti prometto che per un mese non ti rivolgerò più la parola se non per ragioni di servizio”.
Hassi-Inifel: trenta goumier indigeni. Quattro europei, io il maresciallo, un sergente e Gourrut. La minaccia era terribile. Sortì il suo effetto.
“Orbene, ecco! signor tenente – disse con un gran sospiro. – Dopo, però, non mi rimprovererete per avervi riferito sul conto di un comandante cose che non vanno dette, soprattutto quando si basano sui pettegolezzi di mensa”.
“Parla”.